Di fronte un’opera d’arte particolarmente evocativa ti è mai capitato di provare un forte senso di svenimento, accompagnato da palpitazioni e vertigini? Se la risposta è sì… niente paura, sei stato vittima anche tu della cosiddetta Sindrome di Stendhal, un fenomeno verificatosi di frequente alla vista delle sublimi opere di Caravaggio e di Michelangelo.
Ma perché questi sintomi sono associati al nome dell’illustre scrittore francese?
Per scoprirne la motivazione occorre fare un passo indietro nel tempo, tornando precisamente al 1817, quando Marie-Henri Beyle, più conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal, descrisse per la prima volta gli effetti di questa patologia psicosomatica nell’opera “Roma, Napoli e Firenze”.
«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere», scriveva Stendhal per raccontare la crisi che lo costrinse a uscire dalla Basilica di Santa Croce a Firenze al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo. Il suo iniziale entusiasmo dinanzi alle opere di incommensurabile bellezza si trasformò infatti in un breve stato confusionale che lo portò negli anni successivi a riflettere su quanto accaduto e a raccogliere l’esperienza tra le pagine del suo diario di viaggio, scritto dopo aver compiuto il Gran Tour tra le strade delle più belle città della nostra penisola.
Ufficiale di cavalleria a Berlino, Stendhal trascorse, nel 1811, un periodo di congedo in Italia, dove gli parse di scoprire un nuovo senso della vita, nel fascino della musica, delle arti e della poesia. Collocato successivamente a riposo dai Borboni dopo la caduta di Napoleone, dal 1814 al 1821 si stabilì a Milano, città che considerò da allora sua patria d’adozione. “La fleur de ma vie” definì quel periodo, quei sette anni che segnarono così tanto la sua vita da indurlo a disporre, come epigrafe della sua tomba, la scritta “Arrigo Beyle milanese”.
Parma, Bologna, Roma e Napoli costituirono poi il proseguimento ideale del suo viaggio, fonte di ispirazione per opere dal valore inestimabile come la “Certosa di Parma” o “Passeggiate romane”, itinerario di viaggio tra le strade della Capitale che fornisce all’immaginario viaggiatore una conoscenza esaustiva della città, della sua storia, dei suoi monumenti e dei celebri personaggi che la popolarono.
L’Italia diventò ben presto una fonte di ispirazione e di rinnovamento per i migliori spiriti del secolo, grazie all’enorme patrimonio culturale e all’inestimabile bellezza dei suoi paesaggi. Il Paese della bellezza, del paesaggio e del gusto divenne infatti meta imperdibile, e talvolta tappa finale, del viaggio di crescita e formazione compiuto da artisti e giovani rampolli dell’aristocrazia europea, a cavallo tra la fine del Cinquecento e gli ultimi anni dell’Ottocento.
E non a caso, l’espressione “Gran Tour” venne utilizzata per la prima volta nell’opera “The voyage of Italy”, scritta nel 1698 da Richard Lassels, un canonico inglese deputato all’educazione di numerosi giovani dell’aristocrazia britannica.
Durante quel lungo periodo, il Gran Tour, antesignano del Programma Erasmus, produsse non solo diari, romanzi, saggi e dipinti, ma anche un fenomeno tipico della modernità: l’abitudine a spostarsi per il puro piacere di farlo.
Il viaggio come “cura dell’anima”, compiuto per colmare la sete di sapere e di conoscenza, e per questo completamente avulso dalle motivazioni commerciali e religiose che avevano spinto fino ad allora l’essere umano a spostarsi.
Come accade per il moderno Erasmus, il viaggio diventò strumento di formazione, ma anche mezzo di scambio e commercio intellettuale, affondando le proprie radici ideologiche nell’Inghilterra di Francis Bacon, il celebre filosofo inglese che nell’opera intitolata “Of travel” evidenziò la necessità del viaggio d’istruzione in Europa per i giovani intellettuali dell’epoca.
È venuta anche a te un’incontenibile voglia di partire?