Don’t be afraid of being afraid, non aver paura di essere spaventato.
Questa frase del mio maestro Anders Petersen, racchiude forse il senso di ciò che io intendo per street photography e per fotografia umanista.
Per proseguire nella riflessione è necessario, però, porsi alcune domande. Cosa spinge a fotografare? Cosa ci porta a percorrere le strade del mondo alla ricerca dell’attimo? Perché parliamo di street photography? O di fotografia umanista? Perché la street diventa genere? A quali canoni risponde? Quale è l’attrezzatura necessaria? Andiamo quindi per ordine.
La street photography è per me la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’, quindi, un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la rappresentazione quotidiana, la sua messa in scena.
Un esempio straordinario lo dà proprio il mio maestro, quando appena diciottenne incontra l’umanità sbandata e marginale del Cafè Liebnitz ad Amburgo, diventando parte della storia, raccontando quelle persone in maniera potente e partecipe, tanto da far diventare i suoi eroi l’archetipo di un mondo alla deriva eppure vivo e pulsante. Quella straordinaria esperienza si tradurrà nel libro “Café Liebnitz” che rappresenterà una delle pietre miliari della fotografia europea.
Petersen e la sua close distance, distanza ravvicinata, o vicino e distante è una delle possibili declinazioni della street o se volete della fotografia umanista, proprio perché qui si sceglie di contaminarsi e di “sentire”. Tanto da richiamare, per usare le sue parole, la necessità della danza con il soggetto, al fine di coglierne il ritmo, la direzione, l’odore, la sua intima essenza.
E’, questa, una delle possibili declinazioni della fotografia umanista e della street photography. E’ sicuramente quella che rispetto alle altre ha più bisogno di coraggio, perché fugge ad esempio alla tentazione voyeristica del teleobiettivo, scegliendo invece di affrontare la paura a mani nude, con una piccola macchina e la necessità che ne deriva di andare incontro al soggetto per danzarvi assieme, appunto.
E’ la declinazione che preferisco e mi permette di provare quella paura che acutizza i sensi, che rende vigili, scattanti. Che ci consente di “vedere” oltre che “guardare” per parafrasare Ferdinando Scianna, ma di vedere da una prospettiva che incontra a volte gli occhi dell’altro, o la sua presenza fisica. Oppure di vedere le sue tracce o le sue rappresentazioni, attraverso le quali cerchiamo di decifrare identità individuali e collettive, culture, fratture, momenti di passaggio.
Attenzione però, questa declinazione presuppone e interseca la ricerca di sé come condizione necessaria allo scambio. Cercando me interpreto l’altro o cercando l’altro vado alla continua ricerca di me stesso.
La street photography e, quindi (per me) la fotografia umanista, è niente altro che la ricerca di me attraverso la lettura della rappresentazione umana. E come se dalla “messa in scena” del mondo io cerchi i frammenti in grado di rappresentarmi. In termini più generali possiamo quindi dire che la street è la ricerca del “frammento” nella messa in scena del mondo, un modo per rappresentare l’umanità e la sua identità collettiva attraverso il fluire del tempo. La reiterazione e la replicabilità della ricerca e, quindi, la sovrapposizione dei frammenti, tracciano una storia collettiva, in grado di segnare e segnalare i mutamenti, i cambi di passo, le fratture culturali che percorrono il mondo. La street diventa quindi “genere”quando e in quanto la massa delle sue rappresentazioni diventa termometro del tempo.
Personalmente, per ora, preferisco il bianco e nero, questo per la sua possibilità di astrazione. Divenuto quasi il canone della street, seppure non mancano fantastici esempi di foto a colori, il bianco e nero consente per me quell’operazione di astrazione necessaria per arrivare al cuore del messaggio. In ciò che cerco di realizzare, ho bisogno che la composizione arrivi all’essenza, cercando di trasmettere il messaggio senza mediazioni se non quelle della composizione.
Per quanto riguarda la tecnica, invece, essa non è e non deve essere l’ossessione del fotografo. La tecnica, intesa come composizione, scelta dei tempi e del diaframma, post produzione, sono utili ma non devono diventare il punto centrale. La fotografia è scatto e ricerca, è il mezzo attraverso il quale incontrare il mondo ritrovando se stessi. Buona fotografia.
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