Prima di calarsi nell’analisi delle varie categorie di soft skills finalizzate tanto al mondo dell’istruzione tanto a quello professionale, è interessante concentrarsi su due differenti macro-temi che, benché possano a loro volta essere agevolmente considerati delle competenze trasversali, rappresentano una fonte costante per l’implementazione di tutte le più specifiche skills che da esse si alimentano e discendono.
L’intelligenza può essere considerata come una somma di differenti attitudini e capacità relazionate alla risoluzione pratica di determinati problemi. Lì dove il mondo accademico-scientifico non sia ancora riuscito a determinare una definizione univoca ed universalmente accettata del concetto, esso è concorde nel sottolinearne differenti fattispecie, o aspetti. Gli aspetti in questione si relazionano alle variegate necessità che l’uomo può trovarsi a gestire nella sua esistenza. E’ facile comprendere come alla base dello sviluppo di competenze quali le soft non può che esserci un tipo di intelligenza differente da quella comunemente considerata in merito alle hard skills; nel ventaglio delle variegate classificazioni che si è cercato di compiere rispetto all’intelligenza umana spicca, a tal proposito, l’intelligenza emotiva.
Tali due parole, accostate, potrebbero sembrare un ossimoro a chi dia una lettura univoca del concetto di intelligenza: essa, infatti, potrebbe richiamare concetti che tipicamente si accompagnano all’applicazione di determinate conoscenze per la risoluzione di specifici problemi, quali la razionalità, lì dove invece l’aggettivo “emotiva” evoca il vasto ambito delle emozioni, fraintendibili come sfera dell’irrazionale. Il nesso fra i due mondi si riscontra invece proprio in questo aspetto dell’intelligenza, che si concretizza nella capacità di “razionalizzare gli aspetti non razionali”, ossia di sviluppare la consapevolezza delle proprie e delle altrui emozioni, e la capacità di controllarle e gestirle al fine di ottenere da esse i migliori risultati possibili nello svolgimento delle proprie attività esistenziali, complessivamente intese.
Nelle organizzazioni, dalle più semplici alle più complesse, ed in qualunque situazione in cui l’uomo si configuri come un “animale sociale”, è implicito egli si trovi a doversi rapportare ai suoi simili, e che gli strumenti per relazionarsi ad essi siano le emozioni: emozioni in entrata ed in uscita, alle quali sapersi rapportare in maniera utile alle finalità da perseguire. La duplice chiave di lettura dell’intelligenza emotiva si riscontra quindi da una parte nel controllo delle proprie emozioni – controllo il quale può seguire soltanto alla presa di consapevolezza dei propri stati d’animo.
Il controllo emozionale – che non vuol dire repressione emotiva – vuol dire saper incanalare positivamente le proprie emozioni, ricollegandosi alla seconda sfaccettatura dell’intelligenza in questione, ossia il relazionarsi agli altri in maniera coerente ed ottimale. L’acuire le proprie attitudini sociali deriva in larga parte da una delle componenti fondamentali dell’intelligenza emotiva, ossia l’empatia. Il termine in questione deriva dal greco antico εμπάθεια e trova nella sua etimologia una descrizione limpida e netta del suo significato più profondo: essa significa, letteralmente “sofferenza dentro” e quindi per traslazione “identificarsi nell’altrui sofferenza/sentimento”. Attraverso l’empatia gli uomini e le donne riconoscono gli stati di animo di altri uomini ed altre donne e, vista la propria umanità riflessa nell’altrui, riescono a costruire un percorso comune con maggiore partecipazione, slancio e forza dinanzi ad eventuali avversità e situazioni di contrasto. Soft skills quali la capacità di leadership, il lavoro di squadra (teamwork) ed anche il problem solving trovano terreno fertile in un individuo con una spiccata intelligenza emotiva, e danno risultati concreti agli obiettivi tanto dell’individuo in senso stretto quanto dell’organizzazione in generale.
Secondo grande macro-tema da prendere in considerazione rispetto all’analisi delle innumerevoli soft skills che da esso attingono è il concetto di resilienza. Il mondo è contraddistinto nella sua natura più profonda dall’entropia, ossia dal disordine momentaneo scaturito da una perturbazione che sconvolge un sistema precedentemente in stato – quantomeno apparente – di quiete. Non credo che nella storia dell’umanità si sia assistito ad un numero di cambiamenti tanto rapidi, improvvisi, ed interconnessi gli uni agli altri quanto negli ultimi decenni, e con una tendenza esponenzialmente crescente nell’era della globalizzazione.
In un sistema integralmente interconnesso, il battito d’ali di una farfalla può scatenare un uragano a centinaia di chilometri di distanza, citando un noto concetto della teoria del caos noto come “effetto farfalla” e formulato dal matematico statunitense Edward Lorenz nel 1962. Ciò che è possibile evocare attraverso quest’immagine pittoresca è che se è lecito pensare che un evento apparentemente insignificante possa sprigionare una serie di eventi di ampia portata, e difficilmente prevedibili e controllabili integralmente, l’uomo deve dotarsi degli strumenti per navigare in un simile mondo. Ed il mondo rispetto al quale si trova a navigare è oberato, rispetto ai secoli precedenti, da un’interconnessione ed interdipendenza delle sue componenti tanto stretta e simultanea, che lo status quo sembra ormai essere diventato un concetto astratto e difficilmente sostenibile anche solo nel breve termine.
Ad una simile condizione viene incontro ancora una volta la mente dell’uomo con le sue infinite potenzialità, e la seconda grande attitudine da coltivare e sviluppare nel XXI secolo, ossia la resilienza. E’ essa stata definita in molti modi differenti, con sfumature del concetto che sono state declinate in ambito psicologico, manageriale, ingegneristico ed in moltissimi altri ambiti del sapere. Il filo rosso che si estende fra tutti resta il concetto di adattamento: la resilienza è la capacità di adattarsi al cambiamento – che si suppone inevitabile nel lungo termine – in modo tale da convertire i rischi in opportunità, i circoli viziosi in virtuosi, i danni in benefici.
La resilienza non è una sterile resistenza destinata, prima o poi, a condurre l’uomo a collassare sui propri obiettivi e le proprie finalità condotte avanti ad oltranza, ma un profondo cambiamento delle modalità per raggiungere gli obiettivi prefigurati. E’ logico pertanto che lo strutturare la propria resilienza non sia un’operazione improvvisata ed astratta, ma lo sviluppo di molte capacità concatenate che determinino strutturalmente lo sviluppo di un atteggiamento e di strategie tali da poter fronteggiare il cambiamento, ed incanalarlo secondo la propria volontà, in maniera vincente.
La skill che più di tutte è figlia della resilienza è sicuramente il problem solving, ossia la capacità di risolvere efficacemente ed efficientemente un problema che si frapponga alla propria operatività; altre skills che a cascata ne derivano sono sicuramente la capacità di lavorare sotto pressione e resistere allo stress, la capacità di organizzazione e pianificazione, il raggiungimento degli obiettivi preposti.
Come sempre, i due macro-temi analizzati non devono essere considerate camere stagne, ma compartimenti comunicanti tanto fra di loro quanto con le innumerevoli soft skills che ne sono influenzate e che troveranno successivamente ampia analisi.