Febbraio 2009, aeroporto di Stansted.
La scena sembra l’incipit di un romanzo di Raymond Chandler (o un altro scrittore a caso): Roger, un amico di mia zia, mi attende agli Arrivals: ha l’aspetto di un George Clooney stropicciato e mi stringe la mano con lo sguardo perplesso di chi si è giocato la casa a briscola ma ha appena scoperto che il suo compagno non gioca a carte dal 1977.
Per rompere il ghiaccio gli chiedo se posso fumare (“mind if I smoke?”); mi risponde con un deciso “hell, no” e capisco che non è il ghiaccio, ma qualcosa ho rotto.
Durante il tragitto aeroporto-casa, in preda al tipico attacco di ansia da prestazione (“devo fare una buona impressione, devo fare una buona impressione”) parlo senza sosta, mischiando italiano, inglese e dialetto.
Lui ogni tanto sorride…amaro, e probabilmente si chiede per quale strana circostanza ha accettato di farmi da tassista.
Avrei scoperto in seguito che la sua era solo timidezza e che dietro l’apparente scontrosità in realtà si nascondeva a very good bloke.
Ma restiamo a quella sera di febbraio 2009.
Quando non parlo, mi guardo intorno per capire dove sono: il cielo di Londra è diverso dagli altri, le stelle sono a risparmio energetico perché la vera star è la città e non ci sarebbe competizione; osservo i vicoli, li chiamo alley, memorizzo i nomi delle strade e mi sento libero di andare ovunque, come l’omino di Google Maps.
Le strade sono enormi, immense come le solitudini e le possibilità e mi accorgo che qui basta poco per passare da woe (dolore) a wow.
Per darmi un assaggio di vita londinese, Roger mi porta al pub dove, dopo mezza pinta di birra, farfuglio come un treno in pensione. Per difendere l’onore dell’italiano “santo, poeta e gran bevitore” do la colpa alla stanchezza e rimando tornei alcolici a tempi migliori.
Il giorno dopo mi sveglio misero e arruffato mentre Roger è in gran in forma; mi prepara una tazza di caffè – in barba ai vecchi cari cliché sull’inglese e il the- e, mentre versa lo zucchero, mi dice “say when”, letteralmente “dimmi quando”.
Io mi guardo intorno, penso alla canzone di Tony Renis (Quando quando quando) mentre lui continua a versare zucchero e a dire “ehi mate, say when”. Intuizione! Say when equivale al nostro “quanto zucchero?”…fermo Roger con un intervento disperato e bevo un caffé più smielato di una telenovela venezuelana.
A quel punto non mi sovviene l’eterno ma la raccomandazione della mia insegnante di inglese a proposito delle espressioni idiomatiche (idiomatico: proprio, peculiare di una lingua; un’espressione o una frase i. non è traducibile alla lettera), “fondamentali quando vai all’estero”.
E per evitarvi equivoci simili al mio (e scongiurare il diabete), ecco una lista di 8 espressioni idiomatiche da imparare a memoria prima di andare a Londra.
Per quanto riguarda Roger, well, la prossima volta il caffè lo prendo al bar!!
1 A piece of cake (un pezzo di torta): qualcosa di semplice, come bere un bicchiere d’acqua
2 Out of the blue (fuori dal blu): all’improvviso, di punto in bianco.
3 Rings a bell (suona una campana): ricorda qualcosa, mi suona familiare.
4 Start from scratch (cominciare dal graffio): ripartire da zero. Espressione che deriva dal mondo dello sport, dove lo scratch era il punto di partenza, segnato (“scratched”) sul terreno.
5 To have a finger in every pie (avere un dito in ogni torta): avere le mani in pasta dappertutto
6 Break a leg (spezza un gamba): equivale al nostro “in bocca al lupo”. Pare che l’espressione risalga all’epoca del teatro elisabettiano, quando gli spettatori, per mostrare il gradimento, non applaudivano ma sbattevano la sedia sul pavimento. Se il gradimento era alto, le gambe delle sedia si rompevano.
7 To rain cats and dogs (piovono cani e gatti). Piove a dirotto…insomma serve l’ombrello!
8 When in Rome do as romans do (quando sei a Roma fai come i romani). Il nostro “paese che vai, usanze che trovi”.
Se anche voi amate il caffè poco zuccherato e vi ubriacate con mezza pinta, potete leggere le altre puntate della Mission English Reloaded