La mia generazione, come poche altre, si è ritrovata a vivere un periodo relativamente lungo di transizione sotto un’ampia serie di punti di vista. Internet ha cominciato a essere davvero diffuso a livello popolare negli ultimi anni ’90, quando io e i miei coetanei vivevamo la tarda adolescenza; dunque al guado: troppo grandi per essere “nativi”, ma abbastanza giovani e flessibili per fare del PC e della rete il proprio pane quotidiano. Negli anni della nostra formazione, tanto nella scuola, quanto nell’università, abbiamo sperimentato cambiamenti sistemici quasi a cadenza annuale: basterebbe pensare al nuovo esame di Stato (e ai suoi successivi, continui ritocchi), agli esami di riparazione prima aboliti e successivamente riesumati, all’istituzione dei corsi di recupero (a seconda degli anni, più o meno obbligatori); e poi alle molteplici riforme dell’ordinamento universitario (vecchio ordinamento, nuovo ordinamento, nuovissimo ordinamento , fino a esaurire le parole…). Non parliamo poi del processo di abilitazione dei docenti, con l’istituzione della scuola SSIS, poi del Tirocinio Formativo Attivo (TFA), per giungere alla recente proposta di lauree abilitanti seguite da un lungo tirocinio a scuola (FIT).
Questa situazione, che si protrae ormai da una ventina di anni, trae origine, in realtà, dal tentativo di rinnovare globalmente la scuola sotto molteplici aspetti, di liberarla dal peso opprimente della tradizione, che aveva preservato molte delle strutture immutate per decenni (pur con la significativa parentesi del ’68 e degli anni successivi). Il risultato, però è sotto i nostri occhi: ogni nuovo governo, una nuova riforma della scuola che annulla la precedente.
In questo contesto, a noi, giovani docenti formatici nel caos di questi ultimi anni, si chiede di rivoluzionare l’ approccio didattico, di utilizzare le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), di aumentare le attività laboratoriali, di lavorare prevalentemente in modalità di divisione in gruppi, di prediligere un approccio induttivo… Insomma, di rifiutare la tradizionale lezione trasmissiva, che pure ancora godeva di ottima salute e di unanime applicazione quando eravamo noi quelli seduti tra i banchi, quindi nemmeno troppo tempo fa.
In teoria, tutti d’accordo. Come si potrebbe non esserlo?
Nella pratica, invece, la situazione risulta più complessa. Me ne sono reso conto durante la frequenza dei corsi TFA nel 2015. In primo luogo, l’atteggiamento dei nostri docenti nei confronti della didattica non era uniforme: molti, soprattutto i più giovani, ci offrivano spunti orientati a una didattica innovativa nelle varie discipline. Altri, invece, tendevano a minimizzare la rilevanza dell’approccio didattico, o comunque mostravano una scarsa familiarità verso questi ambiti… d’altra parte, essendo quasi tutti docenti universitari con scarse o nulle esperienze nella scuola, forse non ci si poteva aspettare molto di più. Ciò che mi ha maggiormente sorpreso, tuttavia, è stato il comportamento dei miei colleghi abilitandi: di fronte alle proposte più rivoluzionarie, hanno risposto con uno scandalizzato conservatorismo, figlio di modelli e prassi di insegnamento talmente radicati da rendere arduo persino concepire l’esistenza di alternative, ma anche di un comprensibile senso di insicurezza di fronte alle novità, che spinge a rifugiarsi in ciò che è noto.
Avrebbero dovuto formarci a una nuova didattica, quantomeno durante il percorso universitario, invece di caricarci, dall’oggi al domani, della responsabilità di mettere in pratica delle riforme assolutamente indispensabili nella realtà scolastica di oggi, ma rispetto alle quali ci troviamo fatalmente impreparati: non saranno certamente 4 mesi di TFA, svolto in fretta e furia, sacrificando in gran parte la fondamentale fase di tirocinio diretto nelle scuole, e con le contraddizioni di fondo di cui si è detto, a fornirci gli strumenti di cui si necessita per realizzare ciò che ci si attende dalla nostra generazione di insegnanti. Nessuna possibilità di sperimentare le soluzioni studiate sui libri per il TFA (e, per molti di noi, anche per il concorso, che, tradendo le promesse ministeriali, si è rilevato di impostazione nozionistica come avremmo potuto aspettarcelo 40 anni fa).
Eppure, è la quotidianità nella scuola, ancor più del buon senso, a indicarci l’assoluta necessità di un cambiamento profondo, di metodologie e tecniche capaci di sfruttare le nuove tecnologie per coinvolgere degli studenti sempre più incapaci di approfondimento, sempre più privi di curiosità intellettuale, sempre più conformisti, almeno nelle apparenze superficiali, e quindi svuotati di capacità critiche in grado di decodificare e scuotere la realtà che li e ci circonda.
La speranza è che è che questa lunga fase di transizione abbia termine, che un certo approccio da parte degli insegnanti, capace di mettere lo studente nelle condizioni di essere protagonista del suo percorso di apprendimento, si consolidi, in modo da offrire anche un modello ai docenti di domani; che tutte le scuole, finalmente, siano dotate, in ogni aula, della LIM e delle altre attrezzature che paiono avere tanta presa sui discenti e efficacia nei processi di apprendimento. Che le università offrano piani di studi per corsi di laurea – in modo particolare quelli che, oggi come oggi, prevedono l’insegnamento come unica prospettiva professionale, come lettere, lingue e matematica – che garantiscano una reale formazione alla docenza.
Alla nostra generazione è toccato un compito ingrato. Ma rifugiarsi nelle sterili sicurezze della tradizione, rifiutare di giocarsi questa sfida decisiva, sarebbe una colpa storica vergognosa. Rimbocchiamoci le maniche e apriamo la mente!