LE METAMORFOSI (L’ASINO D’ORO) (RECENSIONE) TERZA PARTE

Qui la seconda parte Nel continuo gioco di distanze tra la realtà e la sua apparenza, emerge il contrasto Lucio-asino (tanto che il titolo dell’opera di Luciano era proprio Lucio...

Qui la seconda parte

Nel continuo gioco di distanze tra la realtà e la sua apparenza, emerge il contrasto Lucio-asino (tanto che il titolo dell’opera di Luciano era proprio Lucio o l’asino ad indicare la duplice accezione, conferita dalla congiunzione “o”, e la duplice caratterizzazione di un essere che non è distintamente né uomo né animale), è dunque molto simile al contrasto Salmacide-Ermafrodito. Il mito del fanciullo fusosi con la ninfa in un unico, ibrido, corpo, con due identità psicologiche però ben distinte, è infatti un altro caso in cui l’autore affronta l’irriducibile confronto con una realtà che non è mai univoca. Come Lucio, in Apuleio, vedeva la Tessaglia nelle sue mille forme e nei suoi misteriosi incantesimi, tanto da diventarne parte con la sua metamorfosi, così anche Ovidio aveva colto la duplicità della realtà, che, espressa mediante la comune dicotomia uomo-donna (Ermafrodito), andava a suggerire la vertiginosa esistenza di un’infinità di sfumature: quelle che anche lo specchio di Narciso restituiva, riflettendosi nella fonte, che, se da un lato era la proiezione della realtà, dall’altro ne rappresentava anche un’ombra indistinta che dava su abissi ignoti.

E proprio nell’uomo alla ricerca di comprendere il significato dell’ombra del vero, che gli appare fumosa, complessa, poliedrica, che sia Lucio o Ermafrodito o Narciso oppure Renzo, rimane inalterata la voglia di sfidare i limiti che la realtà impone, oltre i quali c’è spesso la perdizione. Nel peggiore dei casi, il rischio maggiore che corre l’uomo troppo avventato, l’uomo senza limites, simile ad Odisseo nella sua sfida al rischio per la stessa curiositas, a metà tra pregio e disvalore, condivisa anche da Lucio, è in Apuleio la trasformazione in un animale che però mentalmente conserva la lucidità e a razionalità umana. E quando questa umanità viene colta dagli uomini, che nel romanzo apuleiano rappresentano sempre l’apoteosi di tutti i difetti (dal soldato che usa violenza gratuita sull’ortolano alla sadica moglie del guardiano dei cavalli che, dopo aver legato per bene Lucio, si diverte a malmenarlo fino allo sfinimento), Lucio-asino viene riconosciuto nella sua peculiarità, al punto da diventare un’attrazione, un divertimento da circo, come non sfuggirà a Collodi, che nel suo romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, anch’esso considerabile un esempio di letteratura di formazione, racconterà di Pinocchio che, ormai tramutato in asino, sarà adibito proprio come Lucio ad animale da circo. Infine, non si discosta molto dal tema della curiosità femminile, presente in Esiodo (Le opere e i giorni) nel mito di Pandora, l’episodio di Psiche, che, presa da incredibile curiosità, decide di aprire il contenitore di quella che crede la “bellezza di Proserpina”. Al posto della bellezza, Psiche ci trova un lunghissimo sonno, che la fa cadere addormentata. Il sonno, come abbandono e come punizione della curiosità morbosa, rientra proprio in quei mali che Pandora liberò scoperchiando il fatidico vaso.

Giudizi critici: Quando il romanzo di Apuleio, ad un certo punto, si rivela essere la biografia stessa dell’autore, ormai svelata la perfetta identità tra Lucio Apuleio e Lucio, simili anche per nome, allora il lettore si rende davvero conto che Le metamorfosi possono rappresentare più che un pezzo di letteratura di svago, e piuttosto possono essere intese come l’espressione di un pensiero dell’autore e, insieme, di una sua esigenza. Colto nel pieno di un contesto, quello del II secolo dopo cristo, di profonda crisi e transizione, specificamente religiosa, l’autore (e l’uomo) avverte il bisogno di comporre un’opera che ben rappresenti la sua condizione, e si esprima mettendo in scena un po’ il connubio di tutti i culti e di tutte le correnti, filosofiche comprese, che in quel secolo andavano diffondendosi. Nel contesto di sincretismo che caratterizza tutto il secolo ed anche il successivo, tutto il romanzo è infatti influenzato dall’unione di correnti, e la storia stessa si dipana attraverso la molteplicità di filoni che ora vanno a delineare la superstizione e la magia come culto, ora invece vanno a lambire la sfera dei culti misterici di divinità orientali, come Iside ed Osiride. Anche la filosofia non si tira indietro: nel romanzo sono molteplici i riferimenti ai culti misterici d’impronta filosofica (tant’è vero che proprio in quel secolo Plotino e il neoplatonismo andavano ricevendo consensi sempre maggiori) e la figura stessa di Socrate, l’amico del compagno di viaggio di Lucio, richiama non implicitamente la figura del filosofo greco rovinato dalla sua stessa società e morto a causa dell’intervento della magia (il filosofo Socrate infatti morì avvelenato dalla cicuta, ritenuta uno degli ingredienti preferiti nella credenza di chi intendeva avvelenare qualcuno).

Il riferimento continuo alla magia e alla sfera della superstizione catapulta il lettore in quella che da credenza diventava una realtà nel mondo latino. Non rari erano i processi contro le “matrone avvelenatrici” figura che nel romanzo Apuleiano compare continuamente. Tutte le donne presenti tra le pagine delle Metamorfosi hanno al loro servizio una vasta conoscenza dell’universo esoterico, che, se rimane occulto, produce danni alimentando le superstizioni, se al contrario viene scoperto, è alla base di un processo giudiziario che si tramuterà ben presto nella “caccia alle streghe”. Ma Apuleio utilizza la figura della “matrona avvelenatrice” come simbolo che esprima un lato della crisi anche culturale del secolo stesso. Appena usciti dallo stallo ideale in cui l’aetas augusta aveva gettato la latinità, infatti, gli autori, come anche la letteratura di Luciano di Samosata testimonia, tentano di distrarre il loro pubblico dalle opere di Ovidio e Virgilio, volte a celebrare un princeps quasi senza difetti, e a proiettarsi nella società per descriverne da vicino le inefficienze. Il difetto che nei poemi celebrativi veniva cancellato per far spazio al trionfo della virtù, irrompe invece nella pagina apuleiana con la massima espressività della parola, che viene qui utilizzata in tutte le sue potenzialità e calata in tutti i registri linguistici, dall’aulico-classicheggiante al basso-scurrile. La società non è idealizzata, è anzi analizzata e screditata, a partire dalle classi sociali più basse, e svelata in tutte le sue contraddizioni. Per questo la magia, come sintomo di ignoranza da una parte, e di profondo interesse dall’altra, ha un rilievo tanto grande nel romanzo. Attraverso la magia, sfera agognata da Lucio fino a quando non gli causa danni, Apuleio ha modo di far luce sul contesto di superficialità e scarsa conoscenza che rischia di contagiare anche la figura del letterato. D’altro canto, Apuleio dalla magia, sfera della scaramanzia e della credenza popolare e del discredito delle classi sociali più credulone e ingenue, riesce a passare alla sfera religiosa. Questa si lega, per un istante, alla magia, ma in seguito diventa la sfera, agli antipodi, prediletta della conoscenza e dell’intimità con il divino.

E questo contatto così fortemente ricercato dall’uomo agli albori del III secolo diventa tanto più rilevante se si considera che il secolo in cui Apuleio vive e scrive è lo stesso, importante periodo di massima diffusione del Cristianesimo: una religione ben diversa proprio concettualmente dal paganesimo romano che evitava il dialogo tra dio e uomo. Ma se la risposta all’autore non viene dal Cristianesimo, cui non aderirà, essa viene dalla filosofia stessa, che diventa religione quando in causa è chiamata una divinità che però non ha più un tempio e non ha più un culto. La divinità di Apuleio, a metà tra medio e neoplatonismo, è l’immateriale espressione dell’equilibrio e della risoluzione dell’intreccio. Apuleio aderisce alla corrente secondo cui il corpo attraversa un percorso di disgiungimento dall’anima, fino al totale e definitivo distacco. E il tema stesso delle Metamorfosi non a caso è la separazione di un animo dal proprio corpo. Il titolo alternativo dell’opera è L’asino d’oro proprio ad indicare che l’essere in cui si trasforma Lucio è in realtà la condizione di transizione in cui l’animo e la mens dell’uomo, che alberga in un corpo asinino scomodo e disprezzato, utilizzato solo per il trasporto di grandi carichi, gode di un punto di vista privilegiato (per questo l’asino è d’oro); conserva, cioè, il lume, la brillantezza dell’intelletto che mai si depotenzia. Così inteso, dunque, il romanzo è una vera e propria scala sociale che, attraverso il genere di formazione, dall’infimità della superstizione passa a sublimarsi nella contemplazione dell’ideale filosofico. Lo stadio successivo alla trasformazione in asino sarebbe l’irreversibile liberazione dell’anima di Lucio in un essere senza più corpo, ma, ancora restìo a comporre un’opera troppo lontana dalla tradizionale narrazione per cui alla fine il lettore viene esaudito nelle proprie aspettative (Lucio tornerà un essere umano), l’autore cede al must del lieto fine, legandosi così inevitabilmente, con la sua cultura e la sua rievocazione, a quella tradizione classicheggiante ormai al suo tramonto di cui Le metamorfosi rappresentano un ultimo frammento.

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