Ivanhoe part II

Donna diversa è Rebecca, la figlia dell’ebreo, descritta sì con quella stessa attenzione per la candida sua rappresentazione, ma inevitabilmente portavoce di un diverso significato di bellezza. La sua...

Donna diversa è Rebecca, la figlia dell’ebreo, descritta sì con quella stessa attenzione per la candida sua rappresentazione, ma inevitabilmente portavoce di un diverso significato di bellezza. La sua carnagione, i suoi capelli scuri, la sua voce e la sua origine ebrea ne fanno una rarità esotica da molti ammirata ma solo da lontano, in quanto è pur sempre un’ebrea e il pregiudizio e il disprezzo della razza semita tipico dell’epoca in cui è ambientato il romanzo non lasciano scampo nemmeno alla sua purezza, tanto che lo stesso astio unito al rancore di un cavaliere la porteranno sul punto di morire tra le fiamme di un rogo.

 

Quello della straniera, colei che tenta di adattarsi in un mondo che la esclude ma mai dimenticando i suoi valori ed è disprezzata ma ingiustamente è il ruolo che riveste anche Esmeralda, nel romanzo storico Notre-Dame de Paris che Victor Hugo, sensibile all’influenza dello stesso Scott, compone, concentrandosi di più sulla componente gotica, che Scott invece sviluppa solo marginalmente. Entrambe contrassegnate dalla carnagione olivastra e dall’abbigliamento orientale, ben evidenziate nelle analoghe e rispettive descrizioni, le due donne condividono la bellezza di un’altra etnia; anche Esmeralda, zingara che balla per le vie di Parigi rubando i cuori degli uomini, anche dei più imprevedibili (infatti, trascinerà su di sé gli occhi dell’arcidiacono di Notre-Dame Claude Frollo, che per definizione non può amare alcuna donna), rappresenta lo stesso concetto di donna straniera, che inevitabilmente ammalia. Sia l’ebrea Rebecca che la zingara Esmeralda sono etichettate da un ruolo che non permette loro piena integrazione nella società che può spingersi anche fino ad elevate punte di assurdità, come strumentalizzare il rifiuto all’amore dell’uomo per distruggere l’oggetto del desiderio.

 

La negazione che Rebecca ostenta all’amore di Bois-Guilbert, e i ripetuti rifiuti che Esmeralda oppone a Claude Frollo diventano pretesto per un ricatto che può concludersi con la morte dell’amata. La loro bellezza indipendente e diversa spinge gli uomini alle azioni più turpi, e non c’è più un divieto posto dalla purezza e dalla nobiltà della donna a fermarli poiché esse sono sole di fronte ad una passione violenta che non possono contenere e che si trasforma nell’arma della loro disfatta. Esmeralda e Rebecca non rappresentano la donna angelicata, e sono per l’uomo oggetto di un desiderio non più altamente spirituale e morale ma meramente fisico; sono insomma gli strumenti di un gioco che scatena le furie dell’uomo per il rancore di non poterle possedere. Anche contro la loro volontà, non possono fare a meno di soccombere ad un certo punto, anche provando a rimanere a testa alta. Se accettano di amarli, saranno salve, altrimenti…: è il solito ritornello di fronte al quale le donne più coraggiose si oppongono sacrificando la propria vita, mentre le più timorose sacrificano piuttosto il loro codice di valori per la salvezza, anche rinnegando la fede e la propria dignità.

 

Per Rebecca, significherebbe sconfessare una fede, quella ebraica; per Esmeralda, perdere la dignità e la stima di sé stessa, concedendosi ad un uomo di fede che non ama. Entrambe esposte alla falsa accusa di stregoneria per crimini che non hanno commesso, saranno processate di fronte ad una spietata Chiesa cattolica che le disprezza, più incline all’Inquisizione che alla remissione dei peccati. Rebecca verrà condannata al rogo, Esmeralda all’impiccagione ed entrambe sosterranno le accuse in un ambiente giudiziario a loro ostile, ma la prima verrà salvata dal paladino Ivanhoe, la seconda morirà in mancanza di un eroe salvatore, ed il gobbo campanaro Quasimodo potrà soltanto accontentarsi di morire accanto a lei e di stringerla in un ultimo abbraccio. Il salvatore Ivanhoe, prima di essere un Sassone, un liberatore, un valoroso, è innanzitutto la rievocazione dell’archetipo del cavaliere medievale. Ben disegnato, armonioso, in sella al suo destriero, la spada brandita, l’atteggiamento nobile e ligio al proprio dovere, di religione cristiana, fedele al proprio re-signore: questo è il vestito che Scott fa indossare ad Ivanhoe, non esitando, se prima ha utilizzato riferimenti alla poesia cortese per dipingere le sue figure femminili, a trasformarlo nel protagonista della più classica delle chansons de geste.

 

Proprio da questo corpus poetico in lasse pare emergere il cavaliere Wilfred di Ivanhoe, fedele a Riccardo come può esserlo Rolando a Carlo Magno. In ogni gesto, ogni pensiero, c’è l’obiettivo di fondo di obbedienza al proprio signore, o vassallo, ancor più della missione civilizzatrice che ogni cavaliere ha il dovere di portare a termine. Riccardo ed Ivanhoe, dopotutto, sono colti nel ritornare dalla Terza Crociata in Terrasanta (1189-1192) contro il Saladino: un tema, quello della Crociata, del tutto popolare nelle chansons, nelle quali è evidenziato il compito dell’eroe-cavaliere di sconfiggere il nemico, che nell’ambito della crociata è rappresentato dai Musulmani. Il personaggio di Ivanhoe, analizzato come ripresa della figura del cavaliere, è in tutto e per tutto assimilabile al paladino Rolando, protagonista della Chanson de Roland, poema cavalleresco che narra per l’appunto le gesta del cavaliere che si concludono con la Battaglia di Roncisvalle (778 d. C.). Oltre all’obbedienza al proprio signore, i due condividono il rispetto dell’ideale di onore e di gloria come lo stesso Ivanhoe afferma: “L’amore della battaglia è il nostro pane, la polvere della mêlée è il nostro respiro! Noi non viviamo, non vogliamo vivere se non finché si può essere vittoriosi e celebrati”. Nelle parole di Ivanhoe non viene messo in luce solo il proprio credo, ma quello di tutti i cavalieri che hanno giurato le leggi della cavalleria.

 

Nel loro spirito c’è l’agognato podio della gloria, il desiderio di essere celebrati, una vita diventata poesia e nella polvere della mêlée (la mischia) viene messa in gioco la componente del loro animo più importante e più delicata, proprio l’onore cavalleresco. Quasi simili agli eroi omerici che vivono per i fondamentali obiettivi di timè e klèos o non vivono affatto (come Aiace che, privato di questi valori, preferisce il suicidio), i paladini dell’epica medievale si struggono per la causa cavalleresca che è comune a tutti: il trofeo della vittoria, da raggiungere con le armi di onestà e lealtà che li contrappongono ai cosiddetti “felloni”. Anche nel definire gli antagonisti del romanzo, Walter Scott non dimentica di attingere dal chiaroscurale Medioevo: i rapitori Bois-Guilbert, De Bracy, e Front-de-Beuf, lo stesso Giovanni usurpatore del trono d’Inghilterra non sono che figure di falsi, disonesti, riassunti nell’archetipo del vilain. Il concetto tutto medievale di vilain ha larga diffusione nella letteratura edificante in versi del tredicesimo secolo e rappresenta proprio la falsità, la furbizia e la cattiveria. Allo stesso tempo effettivo protagonista e antagonista del genere letterario che lo rappresenta, il fabliau, il villano non è un antieroe a tutti gli effetti, perché può essere accomunato al cavaliere dalla stessa capacità e ardore bellico. Ma la differenza sta nella levatura dei propri obiettivi: si noti come può apparire disonorevole immaginare di rapire una fanciulla per poi fingersi il suo liberatore e sposarla. E’ nell’obiettivo, nella proiezione delle aspirazioni che si distingue un chevalier da un vilain. Sempre nell’ambito della letteratura edificante in versi, ecco riapparire in Ivanhoe uno schema narrativo ricorrente: l’incontro tra il cavaliere e l’eremita. Non è il semplice incontro di un uomo a cavallo e di un altro in un’abbazia, ma piuttosto l’incontro di due mentalità, due codici morali contrapposti. Comune all’incontro nella foresta tra Il Cavaliere Diseredato e il Chierico di Copmanhurst è quello tra il Cavaliere e l’Eremita, protagonisti dell’omonimo racconto in versi medievale. A scontrarsi sono sempre due universi contrapposti, il primo della spada, dello scudo e della battaglia, il secondo della meditazione, della religione e della solitudine. Infatti, sia il Chierico di Copmanhust che l’hermite del racconto vivono in isolamento, lontani dal mondo esterno.

 

Ma l’anacoreta di Walter Scott, che in realtà non è altri che Frate Tuck, è tutt’altro che simile alla figura dell’eremita nel racconto in versi risalente agli inizi del XIII secolo: il vigoroso frate non ha infatti nulla di mansueto e pio né nell’aspetto né nell’atteggiamento. E’ evidente che, se nel racconto Il cavaliere e l’eremita l’intento dell’autore era completamente edificante in quanto rappresentazione del percorso di un cavaliere che cambia, lungo un arduo e doloroso percorso di espiazione, da malvagio a pio, nell’Ivanhoe di Scott la bonaria ironia con la quale è tratteggiato l’episodio fa immaginare un intento comico dell’autore scaturito proprio dalla distanza tra l’immagine tradizionale del chierico in solitaria penitenza che ci si può aspettare e quella invece compagnona e sempre più affabile di Frate Tuck. Pertanto, anziché la contrapposizione tra i due modelli etici del cavaliere e dell’eremita, in Ivanhoe la contrapposizione avviene tra l’archetipo di eremita e la sua eccezione, una trovata letteraria che, con la suspense che crea nella curiosità del lettore di scoprire chi sia il misterioso chierico, è fuori dalla storia e dalla comune accezione della figura ed è pura finzione narrativa. (Continua…)

 

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